Speciale Cinevasioni: Tutto quello che vuoi… vedere la domenica pomeriggio

di Margherita Santini
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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Un giovane nullafacente e un 85enne poeta malato di Alzheimer sono una coppia fuori dal comune. Alessandro (Adriano Carpenzano) e Giorgio (Giuliano Montaldo) sono i protagonisti di “Tutto quello che vuoi”, la nuova opera di Francesco Bruni. Il film è una piacevole commedia incentrata contrapposizione tra un giovane pigro di oggi e uomo con un passato e tanta esperienza. Alessandro accetta mal volentieri il lavoro come accompagnatore di Giorgio, ma attraverso il rapporto con l’anziano scoprirà gli eventi del passato. Sarà proprio grazie a quest’esperienza che il giovane imparerà un nuovo modo di vedere le cose: riscoprendo la seconda guerra mondiale. Giorgio è per Alessandro un maestro di vita. Raccontando le sue memorie, il poeta riesce a trasmettere al ragazzo i suoi ricordi più lontani, gli ideali e i pensieri di una volta.

Un film classico, naturale, lineare, semplice. Francesco Bruni non impressiona, ma riesce a divertire il pubblico in sala. Un lungometraggio da assaporare da soli o in compagnia, perfetto per una noiosa domenica pomeriggio. Fin da subitola la semplicità del film lascia immaginare allo spettatore l’evolversi della vicenda, coinvolgendo per le simpatiche battute in dialetto romano. Allegro e spensierato, “Tutto quello che vuoi” rappresenta due differenti generazioni, un argomento più volte trattato nel cinema degli ultimi tempi. I due personaggi del film creano un divertente scambio intergenerazionale.

Un complimento particolare va al giovane Adriano Carpenzano, che, all’inizio della sua carriera da attore, è riuscito a recitare in modo naturale un personaggio non troppo differente da lui. Il ragazzo ammette di essere stato scelto come attore protagonista per semplice fortuna, dato che era andato per caso al casting. Il giovane attore e Raffaella Lebboroni (attrice nel ruolo di Laura, la donna che vive sopra l’appartamento di Giorgio, moglie del regista) erano presenti in sala. Il lungometraggio è stato presentato alla Casa Circondariale “Dozza”, nell’ultima giornata di proiezioni del festival “Cinevasioni” 2017, sotto l’occhio di un pubblico misto di studenti e detenuti. Ma questa non è stata la prima volta che il film è stato proiettato in un contesto così inusuale: aveva già ottenuto successo presso la Casa Circondariale di Rebibbia (Roma).

Francesco Bruni ha vinto il Nastro d‘argento come miglior sceneggiatura ed il film “Tutto quello che vuoi“ è stato candidato al Nastro d’argento come miglior sceneggiatura e miglior fotografia. “Tutto quello che vuoi“ è uno dei migliori film italiani dell’anno.

Speciale Cinevasioni: La pelle dell’orso, paesaggi incantevoli per una storia amara

di Silvia Pelati
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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Un film limpido e lineare, così potrebbe essere definito La pelle dell’orso(2016) di Marco Segato ma, come spesso accade, dietro all’apparente facciata di chiarezza e semplicità si nasconde un meccanismo ben più complesso. Se questo ingranaggio, poi, va a toccare grandi temi quali il confronto/scontro tra uomo e natura e il rapporto genitori/figli, la profondità del livello di lettura richiede una grande disponibilità alla riflessione. La pelle dell’orso di tempo per riflettere ne lascia parecchio, avvalendosi di un’azione misurata e personaggi al servizio del mondo circostante, non viceversa.

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Siamo negli anni ’50, in un piccolo villaggio delle Dolomiti, e per la comunità che qui vivesoprattutto di sussistenza, la perdita di un solo capo di bestiame può significare un grave ammanco nell’economia domestica. Così, quando una notte arriva l’orso, “il diavolo”, a prendersi ciò che non gli appartiene, la disperazione si fa largo tra gli abitanti della valle. L’unico modo per scongiurare il pericolo di un nuovo attacco, sembra essere l’uccisione dell’orso, così da cancellare definitivamente le tracce del mostro (gli animali, due esemplari, sono stati fatti arrivare direttamente dall’Ungheria). “Se mi pagate lo faccio io”. Così Pietro, interpretato dal poliedrico Marco Paolini, durante l’ennesima serata passata al bar, si candida per cercare di portare a compimento quel lavoro che nessuno vuole fare e allo stesso tempo riuscire a intascarsi le 600 mila lire promesse dal suo capo se riuscirà nell’impresa. Pietro ha un figlio, Domenico (interpretato dal veneto Leonardo Mason). Il loro è un rapporto fatto soprattutto di silenzi e assenze e le poche volte che le parole escono a fatica dalle loro bocche, queste affiorano con dolore. La regola taciuta tra i due è che del passato non si parla, perché fa troppo male farlo, ma così facendo si finisce per stare zitti pure nel presente. “Perché non me l’hai detto prima?”, chiede il figlio al padre quando questo gli racconta che la madre si è uccisa gettandosi nella diga e il corpo non è mai stato ritrovato. “Perché, perché…”, sbotta Pietro, “Perché è così e basta”.

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Inconsciamente, la scommessa di Pietro rappresenta l’ultima chance di un uomo che, cercando la morte, vuole regalarsi un’ultima possibilità per mettere ordine nella sua vita e regalare così al figlio la possibilità di continuare a crescere libero. Domenico segue il padre in questa avventura, inoltrandosi in un percorso solitario che assume spesso i tratti del racconto di formazione.

Girato in Veneto, nella Val di Zoldo, a 1200 metri di altezza, questo the Revenant tutto italiano ci regala una fotografia di notevole bellezza.
Quella raccontata nel film è una storia circolare che porta Domenico, al termine della vicenda, a sostituire il padre all’interno della comunità. La sua, così come quella di Pietro, è una vittoria amara ma pur sempre una vittoria.

Speciale Cinevasioni: Più libero di prima e il romanzo di formazione

di Sofia Gerosa
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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C’è un corpo che arde sulle sponde del Gange e un odore di carne bruciata che si spande per le strade di Varanasi. C’è un sole che sorge dall’acqua melmosa e un sottofondo di musica orientale.
È questo l’incipit del film di Adriano Sforzi ‘Più libero di prima’ presentato alla quinta giornata di Cinevasioni 2017 Film Festival presso la Casa Circondariale “Dozza” di Bologna. Poi, immagini frammentate, luci stroboscopiche, foto di viaggio, discoteche, con suoni che assumono tonalità elettroniche.
È il viaggio di Tomaso, Elisabetta e Francesco partiti in vacanza per l’India nel 2010 e il suo trasformarsi in incubo con la morte accidentale di Francesco, l’accusa di omicidio per gli altri due e l’inizio di un’odissea carceraria che finirà solo cinque anni più tardi.
Adriano Sforzi entra nelle vite stravolte dei genitori di Tomaso, degli amici di Albenga, li segue nel lungo travaglio, legge con loro le lettere che Tommy invia dal carcere, condivide le lacrime e le attese ogni martedì sul divano davanti a uno schermo. L’attesa e la speranza che la Corte Suprema revochi l’ergastolo.

Martedì 3 Settembre 2013, prima data d’udienza per ridiscutere la sentenza. Da lì, passeranno altri 52 martedì, sullo stesso divano, davanti allo stesso schermo senza che succeda nulla. È un’attesa densa, scandita solo dal ticchettare degli orologi. 1325 giorni di prigionia, 1566, 1643… Le cifre continuano ad accavallarsi tra le sbarre di Nuova Dehli e il cielo plumbeo dove volano i gabbiani, ma la cella di Tomaso si riempie di parole e lettere, di colori e speranza.

“La mia idea fin dall’inizio era quella di andare oltre la cronaca e la morbosità di informazioni, ma di raccontare una vita e una crescita personale, un romanzo di formazione scritto a mano e in stampatello che potesse trasformarsi in una storia universale”. Queste le parole del regista al termine della proiezione. “Ciò che mi interessava era il percorso di un ragazzo che riscopre sé stesso e trova la propria libertà nel luogo più impensabile”. Al materiale d’archivio, le riprese televisive e amatoriali che seguono il “mondo fuori” si alternano i tratti semplici e puliti delle animazioni curate da Olga Tranchini, per esprimere l’universo onirico ed emozionale di Tomaso, dal tribunale che si apre in una voragine a fantasmi che si staccano dalle pareti per ingoiarlo fino all’uccello che perde le piume e diventa uomo. Un’animazione che si fa sempre più realistica via via che aumenta la consapevolezza del reale e la parola “ergastolo” si trasforma in macigno.

5 Dicembre 2014, giorni 1722 di prigionia. La condanna è discussa ma la storia sembra ancora lontana dal concludersi. Il tempo continua ad avvolgersi su sé stesso e ne avvertiamo tutto il peso nelle inquadrature statiche e ripetitive, nel ticchettio degli orologi e nel silenzio degli sguardi e dei gesti. Fino all’urlo liberatorio della madre Marina all’aeroporto mentre corre incontro al figlio finalmente libero. Tomaso ha spalancato il soffitto della cella e ora vede il cielo, ma la libertà, quella vera, quella che prescinde il corpo, l’aveva già raggiunta da dietro le grate.
“Hanno rinchiuso il mio corpo in carcere ma la mia mente è libera e il mio cuore vola con lei.”

Speciale Cinevasioni: Gatta Cenerentola, bellezza di una fiaba contemporanea

di Maria Letizia Cilea
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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L’ultima giornata del festival Cinevasioni si conclude con la proiezione speciale fuori concorso del film d’animazione Gatta Cenerentola, piccolo capolavoro cinematografico e musicale diretto a otto mani da alcuni dei più talentuosi fumettisti italiani contemporanei e presentato con grande successo alla 74^ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Un’operazione molto coraggiosa quella dei quattro registi – Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone – che mirano direttamente all’immaginario fiabesco della storia di Cenerentola, opera contenuta nel famoso Cunto de li cunti di Giambattista Basile, la quale viene in quest’occasione rinnovata ed attualizzata in maniera intelligente ed acuta. Nella trama c’è solo qualche riferimento alla storia originale: Gatta Cenerentola è il soprannome di Mia, ragazzina sveglia e intelligente, figlia dello scienziato Vittorio Basile, il quale vuole costruire dentro una immensa nave nel porto di Napoli una città della scienza e della tecnologia, per fare rivivere la cultura della legalità. Angelica, diabolica manipolatrice e promessa sposa di Vittorio, riesce ad ingannare e far uccidere lo scienziato per favorire un arrogante malavitoso, Salvatore lo Giusto, detto O’Re. Da qui parte l’odissea di Mia e della guardia del corpo di Vittorio, Primo Gemito, divorato dal senso di colpa per non essere riuscito a salvarlo.

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La rielaborazione delle parti centrali della storia tradizionale ha lo scopo di porre lo spettatore dentro il panorama di bruttezza e immoralità della criminalità napoletana e incontemporanea esaltare ciò che di bello ed originario c’è nell’animo umano e nella cultura partenopea. A partire dalla musica, anch’essa rivoltata nelle sue componenti tradizionali, che rimane grande protagonista del film e che è spesso foriera di importanti messaggi e di svolte fondamentali nella trama; perfette inoltre le ambientazioni di una Napoli che non è mai mostrata, ma è sempre suggerita, presente in sfumature di paesaggi, azioni ed atteggiamenti dei personaggi, oltre che in importanti intercalari dialettali.

La sceneggiatura fa perno sulla forza metaforica degli oggetti contenuti nella fiaba originale, a partire dalle scarpette, che assumono una molteplicità di valori simbolici: valore memoriale di un affetto perduto, ma anche promessa mancata di un amore e ancora forma di camuffamento di sostanze illegali. Conquista al primo colpo la peculiarità delle illustrazione e la profondità delle animazioni, che spiccano per qualità all’interno del panorama fumettistico e d’animazione italiano.
Gli ottimi doppiatori infine riescono a coinvolgere lo spettatore in un clima di incredibile realismo e concretezza pur all’interno di una meravigliosa fantasmagoria fiabesca, che nel ricordare una storia parte di un passato molto lontano mette bene le mani in pasta dentro la realtà contemporanea.

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Nobile l’intento della produzione, ancor più nobile la riuscita, che fa di questo film d’animazione un gioiello del panorama cinematografico italiano, riportando alla mente la bellezza e il valore di quelle avventure che tanto ci appassionavano da bambini.

Speciale Cinevasioni: La ragazza del mondo ha un obiettivo

di Emanuela Italia
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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Tratto da una storia vera, scoperta e approfondita dal regista Marco Danieli, “La ragazza del mondo” chiude la quarta giornata di Cinevasioni Film Festival.
L’opera prima dell’autore, premiato con il David di Donatello come miglior regista esordiente del 2017, si sposa perfettamente con il tema del festival. La storia d’amore tra Giulia, una giovane Testimone di Geova, e Libero, un ragazzo “del mondo”, cioè esterno al movimento, si trasforma gradualmente in un inno alla libertà.

Appartenenti a due mondi distinti, Giulia – perfettamente inserita nella sua comunità – e Libero – appena uscito da un penitenziario – si incontrano e si innamorano genuinamente. Sono entrambi vittime di un amore puro e giovane, ma ancor di più sono vittime delle proprie insoddisfazioni. Lei vorrebbe intraprendere il percorso universitario, ma la famiglia e il movimento la ostacolano. Lui vorrebbe tirarsi fuori dal vortice dell’illegalità, ma purtroppo ci ricade. Per l’amore di Giulia, che ha lasciato la sua comunità per lui, Libero torna a spacciare. Entrambi si aggrappano l’uno all’altra per sopravvivere, per continuare ad amarsi, per rincorrere la libertà che tanto agognano. Qualcosa però si rompe e aggrapparsi l’uno all’altra non basta più.

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Il regista indaga con discrezione e sensibilità il mondo dei Testimoni di Geova. Non ci sono giudizi sulle credenze e sullo stile di vita degli appartenenti al movimento, ma solo il desiderio di svelare al pubblico una realtà che si conosce in maniera superficiale. Il film però non è solo questo. Non è l’analisi di una particolare comunità, né tantomeno la storia d’amore tra due giovani all’apparenza incompatibili. La ragazza del mondo è un film di formazione e l’obiettivo finale è la conquista della libertà. Giulia si svincola, grazie a Libero, dai dogmi imposti dal movimento, e successivamente diventa artefice del proprio destino, raggiungendo infine l’obiettivo più alto.

Grazie ad una sceneggiatura funzionale, ai dialoghi mai scontati, alle interpretazioni di Sara Serraiocco e Michele Riondino, ad un montaggio incalzante e col proseguire della storia sempre più serrato, Marco Danieli riesce a trasmettere nel migliore dei modi il suo messaggio, regalandoci un film privo di toni patetici, in cui sarebbe stato facile incappare, e ricco di sentimenti puri.

Giulia riesce a conquistare la sua libertà. E il film a sua volta arriva a colpire il pubblico in maniera dirompente, conquistando un lungo applauso e non solo. “Io mi sono sentito libero” ha affermato uno dei detenuti, un componente della giuria, dopo la proiezione.
Colpisce! Eccome se colpisce.

 

Speciale Cinevasioni: The Habit of Beauty, la bellezza ritrovata in uno sguardo

di Maria Letizia Cilea
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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Continua l’avventura cinematografica dentro la Casa circondariale della Dozza con Cinevasioni. Il film di Mirko Pincelli, The Habit of Beauty, ha aperto la quarta giornata del festival calandoci all’interno di un dramma denso di tematiche complesse e di personaggi che s’incontrano e si scontrano nei loro più profondi dolori personali.

Il regista sceglie sin dall’apertura tinte cupe e fredde per raccontare la vicenda straziante di Ernesto ed Elena, che hanno perduto il figlio in un incidente stradale durante una vacanza in Trentino e che tre anni dopo ritroviamo, ormai separati, a Londra; lei, gallerista di fama e con un nuovo partner, dopo un tentato suicidio non riesce ad uscire dal proprio vortice di dolore e antidepressivi. Lui, ex fotografo di successo, tiene un corso di fotografia in un carcere; quando scopre di essere affetto da una malattia incurabile, decide di regalare la sua prima macchina fotografica a Ian, allievo del suo corso appena scarcerato dopo una condanna per spaccio e dotato di un incredibile talento per la fotografia. Il rapporto tra i tre si evolverà facendo emergere drammi antichi e attuali, ricordi di luoghi lontani e una profonda volontà di riscatto.

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Alla sua prima prova da regista di fiction, Mirko Pincelli mette in campo tematiche incredibilmente complesse e personali, giocando con l’idea di creare tre storie parallele e tra loro diversissime che entrano in contatto in modo inaspettato, e cercando di recuperare quella “abitudine alla bellezza” che si può trovare in ogni incontro e in qualsiasi circostanza.
L’intento è certamente dei più nobili, ma il film soffre di qualche problema di scrittura, tanto nei personaggi quanto nella narrazione, che risulta nel complesso poco equilibrata. Pecca sin da subito di coerenza l’evoluzione interiore dei protagonisti. Le loro azioni non vengono sostenute da una narrazione solida, ma piuttosto suggerite da allusioni visive che guardano forse più alla correttezza ed eleganza estetica che alla pregnanza del contenuto.

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Una regia già matura ci offre comunque delle soluzioni originali ed eleganti, che sfruttano anche la fisicità e le interpretazioni misurate di Vincenzo Amato e Francesca Neri, insieme ad un talento prorompente e fresco come quello di Nico Mirallegro.
Pure in una eccellente prova a livello sia registico sia fotografico, non appare altrettanto forte il supporto narrativo, che nel seguire i poli delineati dai tre protagonisti non incoraggia l’approfondimento del contesto in cui essi si muovono, dimenticando tutta una costellazione di personaggi collaterali – il padre e la madre di Ian, il fidanzato di Elena, la gang del quartiere – portatori di drammi altrettanto interessanti ma non esplicitati; essi risultano comunque sufficientemente strutturati da rimanere al servizio dello sviluppo della storia, dialogando in modo abbastanza riuscito con i singolari percorsi di Elena, Ernesto e Ian.
Tramite il fil rouge dell’occhio fotografico, l’intento del regista sembra infatti quello di intrecciare questi universi, abbattendo le prigioni mentali e cogliendo quella bellezza del quotidiano come un’occasione per ricominciare una nuova vita e lasciare un’eredità di sé, tramite gli scatti e un rapporto d’amicizia come quello tra Ian ed Ernesto. Fondamentale risulta essere perciò la potenza dello sguardo e della fotografia, strumenti da rivalutare per guardare anche quelle possibilità che la vita sembrava negare.
Un finale aperto e pieno di speranza riesce in qualche modo a concludere una vicenda complessa e a tenere insieme un prodotto filmico che presenta Mirko Pincelli come un promettente cineasta del panorama italiano del prossimo futuro.

Speciale Cinevasioni: Chi salverà le rose?

di Aurelio Fattorusso
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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“Dedicato a quel gran pezzo di merda di mio padre”.
Il regista sardo, Cesare Furesi, dedica la sua opera prima “Chi salverà le rose?” al padre. Un rapporto – quello con il genitore – controverso e travagliato, per stessa ammissione dell’autore. Un rapporto recuperato solo poco prima della morte del padre, come ha raccontato Furesi a Cinevasioni Film Festival. Lo scontro quotidiano in famiglia, la tensione padre-figlio, Furesi parla della sua esperienza. Quelle del regista sono parole di rimorso e rimpianto, per la lunga assenza della figura paterna nella sua vita.

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Il messaggio che spera di lanciare allora è quello di non compromettere i rapporti, di curare i legami e di fare capire alle persone alle quali siamo affezionate la loro importanza. “Chi salverà le rose?” è un inno sussurrato all’amore. Protagonisti della pellicola sono Giulio e Claudio, interpretati rispettivamente da due icone del cinema italiano, Carlo delle Piane e Lando Buzzanca, che regalano al pubblico un’interpretazione sentita ed emozionante. Giulio e Claudio sono una coppia. Claudio è malato e costretto a letto, mentre Giulio si occupa della casa e del suo compagno. Furesi decide di raccontare, e mettere in scena, un rapporto d’amore sincero e vissuto, destinato a durare anche dopo la vita. Lo fa con un tocco di spensieratezza e vivacità; i problemi sono messi da parte e cedono il passo alla gioia di vivere.

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Furesi, seppure all’esordio alla macchina da presa, si dimostra regista capace in grado di creare inquadrature ricercate, eleganti e raffinate. La regia riesce a trasmettere allo spettatore quel senso di delicatezza e intimità, proprio della vita dei due anziani. Una vita che tuttavia viene scombussolata dalla malattia di Claudio, a causa della quale Giulio è costretto a vendere tutto. Insieme alla figlia, al nipote e all’aiuto di Eugenio, vecchio finanziatore di Giulio, riusciranno a riscattarsi. Poi una digressione su una partita di poker, che dirotta il racconto e l’attenzione dello spettatore, dalla linea narrativa principale. Una digressione forse eccessiva e prolungata, che segna un chiaro omaggio al film “Regalo di Natale” e dunque al regista Pupi Avati. Un omaggio anche allo stesso Delle Piane, che ripropone in un certo senso il personaggio che gli valse la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla 43° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il film vuole presentarsi in questo modo come una sorta di spin-off della pellicola di Avati.  Successivamente la narrazione torna sui suoi passi, giungendo al termine dell’avventura della coppia. Claudio viene sconfitto dalla malattia, Giulio è deciso a seguirlo. Nelle scene finali la regia si fa ancora più intensa ad autoriale, optando per scelte stilistiche in grado di rappresentare una sofferenza taciuta ma forte, grazie alla potenza delle immagini e dei suoni.

Speciale Cinevasioni: Cronaca di una passione, poetica tristezza nella dura realtà

di Margherita Santini
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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“Terzo piano, quattro ambienti, un bagno…”, l’esattore fiscale si rivolge a Giovanni mentre osserva la casa. Silenzio senza fine.

“Cronaca di una passione” di Fabrizio Cattani, in concorso a “Cinevasioni” 2017, il festival di cinema che si svolge in questi giorni alla Casa Circondariale la Dozza di Bologna, racconta la vita di Giovanni (Vittorio Viviani) e Anna (Valeria Ciangottini), una coppia di 60enni che all’improvviso si trova ad affrontare una situazione economica difficile. Una vita fatta di routine viene spezzata dalla disperazione. Tutto inizia con una cartella esattoriale, che li costringe a mettere all’asta la casa. Poi arrivano anche i controlli dell’ASL. E i coniugi devono chiudere il ristorante, per un problema alla caldaia. Anna e Giovanni stritolati dalle tasse e dalla burocrazia, non trovano vie d’uscita. E il film mostra tutte queste difficoltà. Mostra la vita reale, dove spesso non c’è alcun lieto fine.

L’opera di Cattani, molto poeticamente, dà voce a una storia d’amore senza speranza, attraverso i drammatici sguardi di Valeria Ciangottini e di un Paese che non ha più spazio per tutti.

Una regia naturale sottolinea i primi piani immergendo lo spettatore nella vicenda, che ricorda molti casi di cronaca. Una storia toccante, lunga, come la vita. Il regista non tralascia dettagli, ma forse poteva eliminare alcune scene superflue, che rendono troppo denso il film.

Durante la proiezione, il pubblico in sala – composto da studenti e detenuti – si è commosso. Una reazione simile a quella dell’attrice Valeria Ciangottini, come ha ammesso lei stessa in conferenza stampa. Applausi per Vittorio Viviani, che ha saputo entrare perfettamente nei panni di Giovanni.

Quello che emerge in questo film è un argomento tabù, poco affrontato dai media italiani, nonostante i dati Istat rivelino che tra il 2012 ed il 2016 ci siano stati oltre settecento suicidi a causa della crisi economica. La storia girata da Cattani è proprio una di queste: “Ho letto un articolo sulla vicenda di due amanti di Bari che si suicidarono per problemi economici – racconta il regista – ed ispirandomi alle loro vite, ho deciso di fare luce su un tema affrontato sempre meno in una Italia divisa tra ricchezza e povertà, dove la differenza sociale è percepibile in strada, un Paese non più solidale, dove chiunque è interessato solo a se stesso”.

“Cronaca di una passione” è una tragica testimonianza della situazione attuale.  La vicenda non si ferma a Giovanni e Anna: chiunque può immedesimarsi nei due protagonisti, anche grazie agli ambigui riferimenti geografici.

Il film ha avuto molti apprezzamenti all’estero: ha vinto i premi come miglior film, miglior regista e miglior attrice protagonista (Valeria Ciangottini) al “Festival del Cinema” di Teheran (Iran); mentre all’ “Eurasia International Film Festival” di Mosca (Russia), “Cronaca di una passione” è stato premiato come miglior film e Viviani come miglior attore protagonista.

“Il lungometraggio è stato prodotto con 70mila euro – racconta il regista – denaro raccolto tra i componenti della troupe”. La fotografia, inquadrature molto semplici, non stupisce per la tecnica scelta. Nonostante il budget limitato, però, affiora il sentimento che è stato dedicato alla realizzazione dell’opera, intensa e molto ricercata nell’interpretazione degli attori protagonisti. “Cronaca di una passione” racconta una storia vera, la vita e la sofferenza al tempo della crisi, una realtà che attraversa ancora il Paese. Di cui è necessario parlare. Eppure, questo lungometraggio non ha ricevuto distribuzione in Italia, dove prevale una narrazione che cerca continuamente di evitare temi drammatici. Di evitare la realtà.

Speciale Cinevasioni: Easy, un viaggio facile facile… alla riscoperta di se’

di Aurelio Fattorusso
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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La metafora del viaggio come percorso personale alla riscoperta della propria interiorità, del proprio sé. L’idea drammatica sulla quale sono stati basati tanti racconti. Un’idea che tuttavia non ha esaurito le proprie possibilità espressive e offre ancora opportunità sperimentali riguardo la propria poetica e narratività. Lo dimostra Andrea Magnani che, dopo una lunga carriera come sceneggiatore nella fiction televisiva italiana, decide di mettersi alla prova con il lungometraggio “Easy, un viaggio facile facile”, la sua opera prima.

“Easy” rappresenta  l’esordio alla regia di Magnani, ma anche una novità nel panorama cinematografico italiano. La pellicola risente notevolmente dell’influsso di altre realtà artistiche, in particolare scandinava ed inglese. Magnani realizza un film desolato e desolante, che dipinge sulla pellicola la vastità di luoghi lontani, in cui prende vita la narrazione. Sono luoghi, quelli che vanno dall’Italia all’Ucraina, segnati da un isolamento spaziale e temporale in cui si avverte una sorta di intorpidimento e una sensazione acromatica. Lo stesso intorpidimento emotivo di Isidoro, detto Easy, un 40enne che vive in casa con una madre morbosa e oppressiva, che sembra considerarlo un bambino mai cresciuto. Easy soffre di una forma di depressione, dovuta alla sua incapacità di reagire alla vita. Magnani mette in scena la depressione di Easy in maniera tragicomica, preferendo trattare l’argomento con vena ironica e leggerezza. Parafrasando le parole del regista, il film racconta di noi, di tutti. Chiunque potrebbe vivere momenti in cui si sente perso, abbandonato. Ed è allora che si sente il bisogno di ritrovare sé stessi, di ritrovare il bandolo della matassa. Magnani vuole trasmettere un messaggio di fiducia, di conforto. Lo fa attraverso un racconto dai tratti comici, inducendo maggior empatia nello spettatore, che si scopre emozionato alla visione di questo spettacolo. Magnani, provenendo dal mondo della fiction ed esasperato dall’eccessivo dialogismo che caratterizza questo filone narrativo, preferisce attribuire maggior validità espressiva alle immagini. Il regista dimostra una certa padronanza della macchina da presa, creando inquadrature capaci di auto-sorreggersi, riuscendo da sole ad esprimere gli intenti dell’autore e l’emotività di Isidoro. Complice l’interpretazione di Nicola Nocella, che mette in risalto tutta la sofferenza, la solitudine, il disagio e il silenzio.
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“Easy” è un’opera taciuta, quasi priva di dialoghi. E sono ancora di meno quelli in cui si realizza comunicabilità. Ma il film è anche l’incomunicabilità della depressione che Magnani vuole esprimere, fatta di incomprensioni tanto linguistiche quanto emotive. Isidoro è solo, in terra straniera, nel tentativo di portare a termine il compito assegnatogli dal fratello. In viaggio dall’Italia all’Ucraina, si verificano innumerevoli situazioni ridicole ai limiti dell’assurdo. Sono soprattutto gli eventi, dei quali Easy è vittima, a suscitare ilarità e risa.

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Un viaggio come metafora della riscoperta del sé, messaggio che ciò nonostante sembra non emergere con sufficiente forza e chiarezza. Manca una svolta radicale e completa, manca la rivalsa personale di Easy, ancora prigioniero della sua condizione. In quest’ottica, il viaggio potrebbe non essere interpretato come percorso interiore di salvazione personale, bensì come autoriflessione sulla propria esistenza. Il viaggio permette ad Easy di riflettere su sé stesso e sulle cause della sua depressione. Giunge ad ammettere, a gridare, il suo ostacolo, il suo disagio. Allora il viaggio non giunge al termine con la destinazione finale, ma inizia. Un viaggio che pone le premesse per un ulteriore viaggio,  verso la rinascita.

Speciale Cinevasioni: Shalom! La musica che salva

di Sofia Gerosa
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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If you fell it’s raining all in your life
And day by day, there’s nothin’
Hold on just a little while longer,
Hold on just a little while longer,
Hold on
Everything will be alright.

‘Shalom!’ è una musica, una melodia a tratti nostalgica a tratti energica che si insinua tra le sbarre della Casa Circondariale “Dozza” di Bologna. Scavalca i muri grigi del carcere, attraversa i corridoi asettici, le grate, i cancelli e penetra fin nelle ossa. Ad accoglierla ci siamo noi, studenti, giornalisti, pubblico esterno alla realtà del carcere, e loro, i detenuti, raccolti tutti insieme in un’unica stanza trasformata in sala cinematografica.
Si apre così il festival di Cinevasioni 2017, con il film fuori concorso di Enza Negroni, “Shalom! La musica che viene da dentro”. E da questa musica siamo inghiottiti attraverso le storie dei suoi protagonisti che si raccontano, si aprono senza imbarazzo all’occhio della videocamera.
“Un film che parla di umanità e di mescolanze”, dice il giornalista e critico cinematografico Piero Di Domenico, un viaggio per lo più mentale verso un posto altro, lontano che si fa realtà nel momento in cui i detenuti vengono invitati ad esibirsi al Senato e in Vaticano. Una vicenda corale che tuttavia non dimentica l’individualità del singolo, nei primissimi piani che si alternano ai campi lunghi del gruppo in prova con il maestro Michele Napolitano.

Mentre assisto alla proiezione mi arrivano i commenti e le risate di alcune detenute sedute accanto a me, e mi ricordo del luogo in cui sono, una sala cinematografica dentro un carcere. Un luogo di transito, di scambio tra il dentro e il fuori, la commistione di due mondi che seguono ritmi diversi e che per poche ore si incontrano per condividere ed assaporare un desiderio comune di libertà.
Mi è rimasta molto impressa la frase di un detenuto: “Esiste una vita diversa. Questo è un momento di passaggio in cui puoi lavorare per prepararti. La musica ti aiuta a ritrovare te stesso, a sentirti utile, a provocare emozioni in chi ti ascolta. Quando canto mi sembra di evadere fuori da queste sbarre verso un posto lontano”.

‘Shalom!’ è un viaggio, un inno alla speranza che non si spegne neppure quando le luci si
accendono sul freddo intonaco della Casa Circondariale.

Speciale Cinevasioni: Varichina, la lotta per la libertà di essere se stessi

di Silvia Pelati
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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“L’unica macchia di colore nella Bari grigia degli anni ‘70”, questo era Varichina, al secolo Lorenzo De Santis, secondo chi l’ha conosciuto o semplicemente visto passeggiare per le strade della città, le anche ondeggianti, una borsetta immaginaria appesa alla spalla. Il compito di renderlo noto al grande pubblico, invece, è toccato ai due registi Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo che, partendo da un articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno, nel 2016 hanno realizzato il film documentario Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis. Un uomo pittoresco, Lorenzo, il cui soprannome deriva dal fatto che da ragazzino era solito girare per il suo quartiere e consegnare i detersivi che la madre vendeva.

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“Ha combattuto sempre in prima linea e la guerra deforma gli animi”, dice di lui Mariangela Barbanente, alludendo alla lotta solitaria di un uomo apparentemente nato per far divertire gli altri, un supereroe dalla corazza colorata, i boccoli e la passione per le tendine ricamate, che i cattivi li ha incontrati per davvero, proprio tutti, tra le strade della sua Bari.

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In quegli anni, in quella città cupa e bacchettona, Lorenzo era una “delle poche cose che succedevano”. Totò Onnis, che nel film interpreta in modo più che credibile il ruolo del protagonista, tutte queste cose le sa molto bene, perché Varichina l’ha conosciuto realmente. Ha sentito più volte chiamare Lorenzo “il ricchione” poiché nel vocabolario e nella visione limitata del suo paese non c’erano altre categorie nelle quali inserirlo e, in qualche modo, quell’uomo così diverso, si doveva pure inquadrare. Onnis conferma il presentimento che solo chi si ricorda Varichina allora può tentare d’interpretarlo, ricalcarne i gesti esagerati e cercare di coglierne il fragile mondo interiore, la sfida più difficile. Lorenzo pare essere più vivo, ancora vivo, nella voce di chi oggi parla di lui piuttosto che nella storia tangibile, che di lui non ha lasciato molte tracce (ecco che la scarsità del materiale d’archivio viene sostituita nel film dall’inserimento di sequenze di fiction). Solo quattro, infatti, le foto che lo raffigurano, che i registi sono riusciti a trovare: una  – quella del matrimonio di un’amica – in cui c’è senza esserci (il padre della sposa fece tagliare al fotografo l’immagine di Lorenzo, metafora di quello che accadeva quotidianamente a Varichina nella Bari a cavallo tra gli Anni ’70 e ’80), una troppo sfocata, un’altra che lo ritrae sorridente su una sedia a rotelle e quella affissa sulla lapide. A noi viene mostrato il suo vero volto solo in quest’ultima, in una delle scene finali, ma è come se non lo vedessimo. Nei nostri occhi c’è ancora l’immagine di una camicia con stampati dei piccoli ananas e delle pantofole di pelo rosa. Sulla nostra bocca, un sorriso.

 

Speciale Cinevasioni: la favola nera di Sicilian Ghost Story

 

di Emanuela Italia
della redazione di studenti CITEM per Cinevasioni Film Festival 2017

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La prima giornata della seconda edizione del Cinevasioni Film Festival si conclude con un nodo alla gola: Sicilian Ghost Story. La favola (nera) di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza lascia sgomenti quanto affascinati.

Nella Sicilia dei primi anni Novanta si consuma la sfortunata storia d’amore di Luna e Giuseppe, due adolescenti. Lei testarda e innamoratissima, come solo una ragazzina di 13 anni può essere; lui spavaldo, con la passione per il calcio, i videogiochi e i cavalli, come tanti suoi coetanei. Giuseppe, però, non è un ragazzino come tutti gli altri. Lo sa la madre di Luna … lo sa anche lei … lo sanno tutti. Suo padre Santino è diventato un collaboratore di giustizia, un pentito, “un infame”, dicono in paese.

Le scelte degli adulti irrompono violentemente nella relazione dei due ragazzini. Giuseppe scompare. Luna lo cerca, non pensa ad altro, e non si arrende quando i compagni di classe e i suoi genitori le intimano di lasciar perdere. Luna lo sa. Tutti lo sanno. Giuseppe è scomparso perché suo padre ha parlato.

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Sicilian Ghost Story racconta la vicenda di Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, uno dei primi mafiosi ad abbandonare il clan di Totò Riina. Rapito nel novembre del 1993, strangolato e disciolto nell’acido nel gennaio del 1996, Giuseppe è una delle più giovani vittime della mafia.

Questa vicenda di cronaca, simile a tante altre che hanno ferito l’Italia, viene però trasformata da Grassadonia e Piazza in una storia d’amore, una “favola nera”. Il registro realistico o documentaristico, solitamente utilizzato nel cinema italiano per raccontare le mafie, viene abbandonato dai due registi siciliani, che scelgono la fantasia, le inquadrature oniriche e la fotografia che rimanda a tempi e spazi lontani. Usano lo sguardo di una tredicenne innamorata e arrabbiata che non può sfamare il suo amore e non può opporsi ai più grandi, nonostante ci provi costantemente. C’è Luna che lotta per dar voce alla sua rabbia, Luna che vuole ritrovare il suo Giuseppe. C’è la madre della ragazza che si preoccupa per la figlia, che non le regala gentilezze, perché la vuole forte “in” e “per” quella terra. C’è il padre, che la vuole proteggere, ma non sa come. E c’è la mafia. Non parla tanto, ma c’è. Una presenza costante e negativa. C’è nel bosco nel quale i due ragazzi si rincorrono e si scambiano i baci; c’è per strada e negli sguardi della gente; c’è tra i banchi di scuola.

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Sconfinati boschi, profondi laghi, visioni oniriche e dialoghi delicati e rudi allo stesso tempo.
 Sicilian Ghost Story è in grado di far sognare e riflettere. I due registi non sono interessati a raccontare l’orrore con l’orrore, ma usano la favola e il sogno, perché è lì che Giuseppe e Luna possono incontrarsi, è lì che noi possiamo vedere la loro sofferenza e la loro determinazione, ed è nel sogno che Giuseppe può ritrovare la sua dignità di prigioniero e vivere ciò che nella realtà gli viene negato: la giovinezza.
Sicilian Ghost Story è un film che parla d’amore, di prigionia, di orgoglio, di omertà e di forza. Parla di una terra che ancora oggi ha i suoi fantasmi e i suoi dolori.
“Quando ci chiedono, perché abbiamo deciso di raccontare questa storia, e di raccontarla in questo modo – dicono i due registi – rispondiamo che è da parecchio che volevamo parlare di Giuseppe. Per troppo tempo è stato dimenticato; alla fine, l’unica cosa che possiamo rispondere è che il nostro è stato un atto d’amore”.

Suicide Squad: Caos Anarchico

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di Pier Francesco Cantelli

Suicide Squad, fresco vincitore dell’Oscar per il miglior Makeup, è il  terzo film  del “DC extended universe”  dopo Man of Steel e Batman v. Superman, due film che hanno diviso il pubblico. Una posizione non facile. Per uscirne sembrava volersi distaccare dai suoi predecessori,  ma è riuscito a farlo davvero?   Continua a leggere

Oscars 2017: Ups ‘n Downs

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di Pasquale Severino

Domenica, al Dolby Theatre di Los Angeles, si è svolta l’ottantanovesima cerimonia di consegna degli Academy Awards. Passiamo dunque in rassegna il meglio e il peggio della Notte per eccellenza, i momenti più alti e le cadute di stile, tanto per gli aficionados più insonni quanto per te che dormivi già ai premi tecnici, o che semplicemente continui a non capire quanto noi cosa sia successo durante l’annuncio dell’Oscar per il Miglior Film. Continua a leggere

Jackie Kennedy: il ritratto di una first lady

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di Giada Antonelli

Esce oggi nei cinema italiani Jackie, la tanto attesa pellicola del regista cileno Pablo Larraín, che ha come protagonista la first lady Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) durante i giorni successivi all’attentato mortale a John Fitzgerald Kennedy. Continua a leggere

L’anima nera di Donald Trump – The Nazi Hustle

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di Giada Antonelli

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali USA, che hanno visto fronteggiarsi Hillary Clinton e Donald Trump, venne presentato il documentario di Riccardo Valsecchi L’anima nera di Donald Trump – The Nazi Hustle, che indaga i legami fra il candidato repubblicano e l’estrema destra. Continua a leggere

Arrival; un babelico affresco dell’atto semiotico

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di Pasquale Severino

Sarebbe poco onesto far strame di un film come Arrival , esattamente quanto lo sarebbe urlare al capolavoro; rimarrebbe tuttavia una miopia analitica non sottolineare l’efficacia con cui l’ultima fatica dell’istrionico Denis Villeneuve (Sicario, Prisoners) riesce a tratteggiare il cruciale tentativo di costruire un atto di comunicazione intraspecie, la disperata necessità di uscire da quello che per de Saussure è il linguaggio privato, dipanando pazientemente il bandolo del significante, per arrivare al significato. Continua a leggere

Il videogiocatore monco: Virginia e la perdita consapevole dell’interattività

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di Marco Catenacci

Da una parte la realtà virtuale di Tron, il respawn di Lola Corre e di Edge of Tomorrow, la soggettiva FPS del recente Hardcore!; dall’altra, il caso limite dei lavori e della poetica della Quantic Dream. Che il cinema e il videogioco abbiano, ormai da parecchio tempo, provato a contaminarsi reciprocamente per espandere le proprie risorse non è certo un segreto. Ma che il videogioco scelga, in modo pienamente consapevole e maturo, di annullare gran parte delle proprie specificità linguistiche per far risaltare al contempo quelle del testo cinematografico, beh, si tratta di un’operazione non così frequente e nemmeno così immediata.  Continua a leggere

La La Land (o L’irresistibile virtù dell’imperfezione)

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di Pasquale Severino

Fruscio di frequenze radio, stralci di melodie e ritmi differenti, una lunga carrellata serpeggia fra un ingorgo di veicoli in coda, fino ad un abitacolo, in cui una ragazza comincia a cantare, mentre il Cinemascope ci srotola dinnanzi la California Highway Patrol, proprio lì, all’imbocco della Città degli Angeli, alcova della fabbrica dei sogni per eccellenza;  via via le fanno eco sempre più voci, un coro di storie dalla radice comune, una comune aspirazione, le luci della ribalta, i neon, la celebrità. Continua a leggere