2013: Odissea nell’universo (filmico) femminile

di Augusto Ruggeri

Non so se si possa parlare di women exploitation. Certo è che questo 2013 ha messo in luce la donna in tantissime vesti. O senza. Il corpo femminile è stato messo in mostra come non mai. Viene subito in mente La vita di Adele, un film di tre ore con ben nove minuti di sesso saffico. Esplicito. Niente controfigure. E, sorprendentemente, niente censure. Poi c’è Marine Vacth in Giovane e bella, Lindsay Lohan in The Canyons, Amanda Seyfried in Lovelace e molti altri esempi.

Ma non si tratta solo di questo. Accanto agli esempi appena citati, che in alcuni casi segnano il confine tra cinema d’autore e pornografia, ce ne sono molti altri di storie che indagano l’universo femminile, senza dover mostrare alcunché di “spudorato”.

Un tema su cui vale sempre la pena di soffermarsi è la violenza subita dalle donne in ambito domestico. C’ha pensato Philip Gröning col suo ultimo La moglie del poliziotto. Per una volta il titolo è una fedele traduzione dell’originale, e in effetti è utile per comprendere il punto di vista dell’autore. Christine, la protagonista, viene identificata come moglie, quasi fosse un accessorio dell’uomo. Nel film non ci viene detto nulla di lei: che lavoro fa, quali interessi ha. Nulla. Come a voler mettere in chiaro che lei non è “quella” donna, ma una donna qualsiasi. Rappresenta tutte le donne. È una ragazza sola, il cui unico contatto col mondo esterno sembra essere il marito. Forse proprio per questo è così difficile per lei evadere da quella situazione.

La stessa solitudine la ritroviamo nella protagonista di Blue Jasmine, di Woody Allen, dove una straordinaria Cate Blanchett è schiava delle sue nevrosi e disposta a tutto pur di non dover rinunciare alla bella vita cui è abituata. Classico racconto di non-formazione, dove l’arco di trasformazione del personaggio si ripiega inesorabilmente su se stesso.

La donna al centro di una complicata situazione familiare è invece il ruolo che è toccato a Berenice Bejo ne Il Passato di Farhadi, quello che secondo il sottoscritto è il più bel film dell’anno appena trascorso. Marie vive un situazione di equilibri precari: ha una relazione con un uomo la cui moglie è in coma, ha due figlie avuti dal suo primo matrimonio, e ha chiamato il suo secondo marito per ottenere finalmente il divorzio. Non c’è da stupirsi se, ad un certo punto, esasperata, inveisca contro la figlia adolescente, arrivando quasi ad usare le mani. Un’interpretazione brillante, che le è valsa il premio come miglior attrice a Cannes.

In particolare in merito all’ultimo, viene da chiedersi: cosa sarebbe venuto fuori, se questi film li avesse girati un italiano? Ma prima di gettarmi nello sconforto, ripenso al film di Roberto Minervini, giovane marchigiano emigrato negli States: in Texas, per la precisione. Stop the pounding Heart parla di una famiglia di contadini e in particolare di una delle figlie maggiori, per restare in tema di universo femminile. La ragazza finisce per invaghirsi di un giovane cowboy: questo scatena in lei una crisi di ideali, soprattutto a causa del ruolo predominante che la religione cristiana ha nella vita della famiglia, e in generale in quella parte d’America. Minervini riprende il tutto con semplicità e naturalezza, senza scadere in facili moralismi. È vero, il film è stato girato all’estero, ma è pur sempre opera di un italiano.

Torniamo al quesito iniziale: è vero, si potrebbero scomodare termini come exploitation o addirittura sexploitation, dato che gli esempi quest’anno sono stati davvero tanti, come tanti sono i tabù che ci siamo lasciati alle spalle. Ma nel 2014 “appiccicare” etichette è davvero così necessario? Non credo. Specialmente quando l’offerta di film è così variegata.

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