Il cinema indipendente tra produzione e distribuzione: intervista a Simone Starace

di Giulia Zen

In questo personale spazio si è deciso di affrontare un argomento tanto chiacchierato quanto poco studiato: il cinema indipendente. Molto poco, infatti, si conosce del mercato distributivo italiano, se non la presenza di una sorta di monopolio da parte di alcune superproduzioni italiane (i cinepanettoni sono solo alcuni fra i tanti) e qualche rumor trascinato dai festival (l’ultimo capitolino, per citarne uno “casuale”). Ma, in realtà, quanto si sa nel dettaglio di questi enormi sforzi lavorativi? In quest’intervista Simone Starace, uno dei produttori di Fantasmi, un horror a episodi uscito nel 2011, ce ne dà un’idea.

Fantasmi (Italian Ghost Stories) è diretto da Tommaso Agnese, Andrea Gagliardi, Roberto Palma, Stefano Prolli, Omar Protani e Marco Farina, tutti registi emergenti. Cinque differenti storie, cinque differenti protagonisti del terrore: un “fantasma”, un assassino, una medium, un bambino problematico e un vendicatore.

Il taglio scelto per l’intervista non prevede un approfondimento del prodotto in sé (trama, attori, e così via), elementi che si possono riscontrare in una qualsiasi rivista cinematografica, bensì un’immersione totale e pedagogica nell’ambito produttivo e distributivo cinematografico. Buona lettura!

1. Com’è nata l’idea di produrre un film così particolare?
Fantasmi è nato in ambito universitario, grazie soprattutto al sostegno dell’Università di Tor Vergata. Da alcuni anni era infatti in funzione un Laboratorio Cinema, coordinato da Andrea Gagliardi, che aveva già realizzato diversi cortometraggi e videoclip, permettendo a molti di noi studenti di confrontarsi concretamente con piccole esperienze di set. Visto che alcuni di questi lavori, presentati in vari festival, avevano raccolto un certo consenso, nel 2008 abbiamo quindi pensato di tentare il salto verso il lungometraggio, ma abbiamo deciso di farlo adottando comunque una formula “collettiva” come quella del film a episodi.
Il primo problema è stato perciò quello di scegliere un tema comune che conferisse una certa coerenza al film ma consentisse al tempo stesso a ciascun regista di esprimersi in libertà. Se abbiamo deciso di misurarci proprio con la ghost story è stato soprattutto perché in questa fase è entrato in gioco Gabriele Albanesi, che in quel momento aveva già ottenuto una certa visibilità grazie al suo primo horror (Il bosco fuori, 2006) e che si è assunto il ruolo di supervisore artistico dell’intera operazione, seguendo attentamente la preparazione di ciascun episodio. Grazie alla sua presenza, peraltro, è stato anche possibile coinvolgere nell’impresa attori di una certa notorietà, come Primo Reggiani e Laura Gigante.

2. Con che budget siete partiti?
Grazie all’interessamento dei nostri insegnanti (in particolare Giovanni Spagnoletti e Giulio Latini) abbiamo ottenuto un piccolo finanziamento dall’Università, che nei fatti si è ridotto a poche migliaia di euro ma che è stato comunque importante per mettere in moto il progetto. Sempre l’Università ci ha inoltre messo a disposizione una serie di spazi e strumenti preziosi, garantendoci anche la collaborazione di molti studenti che, in qualità di stagisti volontari, hanno lavorato concretamente sul set, maturando così una prima esperienza “pratica”. Direi quindi che il budget complessivo non è immediatamente monetizzabile, perché il film finito è anche il prodotto degli sforzi di molte persone che, spinte dall’entusiasmo, hanno accettato di lavorare insieme a noi senza nessun tornaconto economico. Detto questo, la lavorazione ha comunque richiesto ulteriori fondi e, al di là della formula cooperativa, alcuni di noi hanno scelto di investire di tasca propria nel progetto, entrando quindi in co-produzione. In particolare, si è rivelato decisivo il contributo di uno dei direttori della fotografia, Emanuele Zarlenga, che ci ha permesso di girare con tecnologia RED ad alta definizione.

3. Molti di voi provengono dall’ Università degli studi di Tor Vergata. Siete riusciti ad applicare le nozioni apprese accademicamente al mondo lavorativo?
Ricordo che appena iscritti al DAMS i nostri professori ci spiegarono senza tante cerimonie che il cinema l’avremmo soltanto studiato, perché purtroppo Tor Vergata non disponeva di strutture e attrezzature adeguate per un apprendistato pratico. Parliamo di una decina d’anni fa, ma credo che nel complesso la situazione non sia cambiata di molto: l’università italiana è ancora un luogo in cui si impara soprattutto a “vedere” il cinema, non certo a farlo. L’esperimento del nostro Laboratorio Cinema, tutto sommato, mi sembra ancora un caso abbastanza singolare, e nasce comunque molto più dall’entusiasmo di noi studenti che non dalla partecipazione attiva dei docenti.
Al di là di questo, non voglio però assolutamente sminuire l’importanza che l’Università ha avuto nella formazione di noi autori. Anzi, se dovessi trovare un filo rosso che unisce un po’ tutti gli episodi di Fantasmi, anche quelli apparentemente distanti, lo rintraccerei proprio in un certo gusto metacinematografico, che è sicuramente figlio della nostra formazione accademica.

4. Come sta andando la distribuzione del film?
Dopo una serie di festival e presentazioni nei cineclub, il film uscirà in DVD il 20 febbraio, pubblicato da Ripley’s Home Video, etichetta indipendente specializzata soprattutto in grandi classici del cinema italiano ed europeo.
Purtroppo, com’è noto, la distribuzione è il vero tasto dolente del mercato italiano. Grazie alle nuove tecnologie è oggi possibile, con qualche decina di migliaia di euro, produrre un film “professionale”, ma la vera odissea inizia a lavorazione ultimata, quando poi questo film deve incontrare il pubblico. È vero, esistono i primi sintomi di un cambiamento (conosco diversi giovani registi che lavorano per esempio nell’ambito delle web series), ma per il momento i principali canali distributivi rimangono gli stessi di trent’anni fa: sala, televisione, home video. La sala, per quanto possa sembrare curioso, resta in particolare ancora oggi un passaggio fondamentale, perché è l’unico modo per ottenere una certa visibilità mediatica (quotidiani, riviste on-line, dizionari di cinema). Farsi accettare da questi circuiti, specie se non si ha qualcuno alle spalle, può essere davvero complicato, anche perché di questi tempi il mercato non è che sia particolarmente rigoglioso, quindi distributori ed esercenti non se la sentono di rischiare. E, anche se il film viene accettato, c’è sempre il rischio di finire in mano a cialtroni o truffatori vari, che in Italia com’è noto abbondano. Per Fantasmi, per esempio, abbiamo avuto proposte anche abbastanza scandalose: c’è stato persino un editore (di cui non faccio il nome) che ci aveva proposto di farlo uscire direttamente in DVD, ma soltanto a patto che ne comprassimo noi 300 copie… Alla fine per fortuna Cristina D’Osualdo ha visto il film, ne ha intuito il potenziale e ci ha offerto un contratto con Ripley’s Film. Ma persino così, appoggiandoci a un distributore “di qualità”, non siamo ancora riusciti a ottenere un’uscita in sala decente, che permetta almeno di far circolare il film per qualche settimana.

5. Molti critici vengono accusati di perdersi in analisi del prodotto cinematografico prevalentemente tautologiche. Quali sono oggi, secondo la sua opinione, gli elementi in grado di far diventare un film un buon film?
Personalmente ho una visione molto romantica della critica, leggere un buon libro su un regista che amo talvolta mi emoziona tanto quanto rivedere i suoi film. C’è da dire, però, che quella che compare sui nostri quotidiani come su molti siti web non è vera “critica”, ma semplice “cronaca”: un giornalista va a vedere un film e poi ci racconta le sue impressioni. Nove volte su dieci una recensione si risolve in un riassunto della trama seguito da un breve giudizio finale sugli attori, e sinceramente non capisco proprio perché la gente perda tempo a leggere robaccia simile. Non si parla quasi mai di stile, di linguaggio o di estetica “morale”, e così inevitabilmente ne escono penalizzati proprio gli autori più raffinati. Non parliamo poi del cinema di genere, che nei casi migliori viene ancora liquidato in termini di “artigianato”, come se la politica degli autori non fosse mai esistita. Troppo spesso poi manca qualsiasi capacità analitica, specie per quel che riguarda il linguaggio cinematografico vero e proprio. Mi piacerebbe leggere una stroncatura di Fantasmi in cui qualcuno si lamenta dei carrelli troppo raffinati di Tommaso Agnese, del missaggio troppo stratificato di Andrea Gagliardi o dei jump cut troppo intellettuali di Roberto Palma, invece nella maggior parte delle recensioni spesso si ha l’impressione che chi scrive non abbia notato né i carrelli, né il missaggio, né i jump cut. E questo, purtroppo, a prescindere dal verdetto positivo o negativo.

6. Crede che il cinema indipendente possa trovare accoglienza anche presso il grande pubblico, anziché prevalentemente presso un mercato di nicchia? Se sì, in che modo?
Intanto c’è da dire che rispetto al panorama italiano Fantasmi è un film indipendente un po’ diverso dagli altri: è un lavoro “personale” che non sceglie però la via dell’autobiografismo o dello sperimentalismo, ma si confronta piuttosto con le regole dei generi classici. Questo, beninteso, non per un calcolo di natura economica, ma semplicemente perché abbiamo sentito il bisogno di misurarci con un immaginario cinematografico di cui la nostra generazione si è imbevuta fin dall’infanzia. In ogni caso, sì, credo che prodotti di questo tipo anche a livello commerciale potrebbero avere un potenziale interessante, ma come dicevo prima necessiterebbero di una distribuzione più attenta.

2 thoughts on “Il cinema indipendente tra produzione e distribuzione: intervista a Simone Starace

  1. Da studente del Dams posso confermare il tipico discorso iniziale che fanno i professori appena ti immatricoli: ‘studierete film, ma non farete mai parte di essi!’ Bene, giusto per rompere il ghiaccio. Detto questo, non può che farmi immenso piacere leggere che invece qualcuno ci riesce. Il vero problema sembra la distribuzione dunque. Non è il talento a mancare, o le competenze.. quello che serve per raggiungere gli spettatori è proprio una vetrina che catturi la loro attenzione. Mi auguro che le cose si semplifichino nel tempo.
    Rispetto all’ultima domanda, sono convinto che un film indipendente non sia necessariamente un film scadente, ma tutt’altro.. quindi anche secondo me può trovare accoglienza presso il grande pubblico. E aggiungo che potrebbe competere pure con un film di una grossa produzione (ma se la competizione viene posta su livelli diversi).

    • Concordo.
      Secondo me un potenziale mercato per il cinema indipendente esiste (lo dimostra l’affluenza ai festival), ma per poterlo rendere produttivo andrebbero creati dei canali alternativi, mentre in Italia sembra esistere soltanto la distribuzione “in grande”, che oggi come oggi è possibile esclusivamente per le major. Ed è chiaro che, in un sistema così, il grande pubblico non avrà mai la possibilità di scoprire le virtù “minori” di tanti piccoli film, che davvero non hanno niente da invidiare alle produzioni più costose.
      Come diceva Edgar Ulmer dei suoi film: “Ciò che vorrei è che non si usasse lo stesso metro di giudizio per la Rolls Royce e per la 2 cavalli, che spesso si rivela più utile della Rolls Royce”.

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